Bologna un tempo fu una città di ponti, logica conseguenza al fatto che il territorio cittadino era solcato da canali e da torrenti. Molti di questi manufatti erano, ovviamente, sul canale di Reno, cominciando dal ponte degli stecchi, nel tratto ora tombato di via Sabotino. Era così chiamato perché, quando le piene del canale portavano in città rami di albero raccolti lungo il suo corso, questi si ammucchiavano incontro alla sua struttura, a pelo d’acqua, ove venivano raccolti dalla gente che li usava da ardere.
Poi vi era il Ponte dei Merli che, in pratica, segna l’ingresso del canale in città, alla Grada. Il nome non fa riferimento ai volatili, bensì alla merlatura ancora visibile, pur se incastonata nella sovrastante porzione di mura.
Il Ponte della Carità prendeva il nome dalla vicina Chiesa, in via San Felice. Poi vi era quello dell’Abbadia, quello del Poggiale e via andare. Tutti scomparsi con la tombatura del canale di Reno.
Ve ne erano anche altri, dei quali è rimasto il nome, come il Pontevecchio, che non si riferisce a quello ferroviario che scavalca via Emilia Levante, bensì a un antico ponte sul Savena. Anche di uno scomparso Ponte di Ferro sull’Àposa resta la memoria nell’antico toponimo di una parte dell’attuale via Farini. Di un ponte romano sul Reno rimane il ricordo nel nome di una via a Santa Viola, mentre di un altro sono visibili le strutture murarie percorrendo il tratto sotterraneo dell’Àposa.
Bologna, quindi, città di antichi ponti scomparsi insieme ai corsi d’acqua sui quali sorgevano.
Il canale Navile, però, c’è ancora… negletto, degradato, ridotto a discarica per ogni sorta di rifiuto ingombrante, ma è ancora lì. Addirittura dà il nome a un quartiere… Sul suo corso, ormai lontano dalla città, ecco un piccolo ponticello dall’aria romantica: il Ponte Nuovo, detto popolarmente Ponte della Bionda. L’origine di questa leggiadra denominazione pare risalire al tempo in cui il canale era una via d’acqua importantissima, quasi un’autostrada liquida, sulla quale si era sviluppato tutto un mondo fatto di osterie, magazzini, posti di sosta per i cavalli che trainavano le barche verso Bologna. In mezzo a questo “indotto” vi era anche il più antico mestiere del mondo che lì, nei pressi del nostro ponticello, era esercitato da una non meglio precisata signora “biondochiomata”… Un’altra ipotesi fa menzione di una fulva ragazza residente in una casa prossima al Navile. Sempre a proposito di denominazioni popolari, in zona raccolsi a suo tempo, in verità da un’unica persona, l’abusato toponimo di Ponte del diavolo, attribuito a tantissimi ponti medievali sparsi per tutta l’Italia e riferito a una comune leggenda che li vorrebbe costruiti in una sola notte da Belzebù in persona. Vi è anche chi lo chiama, con molta fantasia, Ponte romano per il suo aspetto antico…
La mia frequentazione di questo manufatto risale ormai ad alcuni decenni fa, quando per vederlo bisognava scarpinare sulla “restara”, l’argine che divide il Navile vero e proprio dal Canalazzo. In questi anni, con l’apertura della via dei Terraioli, il ponte è diventato visibile e facilmente raggiungibile da tutti. Questo, però, non ha rallentato il suo rapido degrado, originato principalmente dalla crescita di alcuni alberi di acacia che avevano sviluppato la loro parte ipogea fra le strutture murarie. Tale lenta ma continua azione aveva provocato la quasi completa scomparsa della spalletta sinistra e il distacco della sottostante fascia dall’arcata. Dell’antica lapide che era collocata al centro del ponte non è stata trovata traccia, neppure sondando il fondo del canale e purtroppo nulla si sa della scritta che recava. Le mie continue e periodiche visite mi confermarono ogni volta che un intervento non era più rimandabile. Iniziai allora a scrivere ai giornali, a sondare le intenzioni di enti e istituzioni circa il destino del nostro malato. Vagando di ufficio in ufficio, mi resi conto che il Ponte della Bionda era un illustre sconosciuto per molti. Faticammo non poco solo per capire, scomparso il Genio Civile, chi ne fosse divenuto il proprietario! Lo scoglio più grande, come sempre succede, era rappresentato dal reperimento dei fondi necessari per il restauro. Fu così che approdai alla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, al cui segretario generale Marco Poli suggerii timidamente l’erogazione di un contributo. Questo fu l’ultimo passo che feci, oltre a scrivere una canta, nella consapevolezza che il “mio” ponticello non presentasse quelle caratteristiche di ritorno di immagine che credevo indispensabili alla sua salvaguardia. Un conto è, pensavo, promuovere il restauro di Palazzo Re Enzo o della Garisenda, altro invece metter le mani su un piccolo ponte sperduto nella campagna.
Non fu così. Dal giorno in cui, nell’agosto del 2003, assistetti incredulo alle prospezioni geologiche sul terreno a ridosso del ponte, è proprio il caso di dire che tanta acqua è passata sotto di lui. Nel frattempo se ne sono innamorati, oltre a Marco Poli, anche Francisco Giordano, l’architetto che ha stilato il progetto di restauro e Alberto Tagliavini, che ha faticato non poco con i suoi giganteschi autocarri a collocare in loco il ponteggio necessario ai lavori. Nelle mie frequentissime visite al cantiere sono diventato amico dei muratori che, lavorando alla maniera antica e utilizzando vecchi mattoni, hanno curato le ferite inferte dal tempo e dalla incuria degli uomini. Franco, Piero, Michele, Cristian, Alfredo, Salvatore, sono alcuni di quei ragazzi venuti dal sud Italia che, con l’arte di cui sono depositari – novelli Maestri Comacini del terzo millennio – stanno rifacendo bella Bologna. Anche loro, mi diceva Franco, si sono affezionati al Ponte della Bionda, della cui antica funzione hanno sentito raccontare da me, quasi una favola ascoltata fra una cazzuolata di calcina e la posa di un mattone…
A lavori iniziati mi venne la curiosità di vedere come potesse apparire il ponte tanti anni fa. Nelle antiche mappe dell’Archivio di Stato esso è appena riconoscibile, ma ciò che io volevo era una foto. Così preparai una specie di bando, che affissi nei pressi del cantiere e nei Centri Sociali della zona, in vero nutrendo poca fiducia nella riuscita del mio tentativo. Ancora una volta dovetti ricredermi: il signor Walter Lorenzoni mi fece pervenire due istantanee stupende, nelle quali lui e il suo amico Rino Comastri si erano reciprocamente ritratti proprio lì, sul ponte, esattamente il 17 agosto 1951, alle ore 17,15 (!). Nelle immagini in bianco e nero si notano lavori di restauro eseguiti in quegli anni sulla spalletta destra con mattoni moderni, sicuramente prodotti in una delle tante fornaci della zona. Si notano anche evidenti tracce di pneumatici di biciclette, segno che il sentiero era allora molto frequentato, forse dagli operai delle fornaci che sorgevano a ridosso del canale (la Galotti, la Guastadina, la Giostra, la fornace del Pellegrino, la Cordara), e anche – aggiungo io – da coppiette che cercavano, nelle calde sere d’estate, un po’ di intimità lungo il canale…
Le foto hanno un sapore d’altri tempi, pervase come sono di pace agreste, senza il traffico di via dei Terraioli sullo sfondo, senza capannoni industriali, senza quell’orrendo tubo della SNAM che scavalca il canale a pochi metri dal ponte, deturpandone la vista. Chissà se un giorno sarà possibile interrarlo…
Per adesso mi accontento. Il mio malatino è guarito e si appresta ad affrontare risanato gli anni a venire. Però bisogna tenerlo d’occhio e a questo penseremo noi dell’Associazione culturale “Il Ponte della Bionda”: senza aver avuto mandato da alcuno e attrezzandoci a nostre spese, da anni manteniamo pulita tutta la zona del Navile, fino alla Battiferro (circa 2500 metri) nella speranza che prima o poi vada finalmente in porto l’antico progetto del Parco Fluviale del Navile.
Fausto Carpani